Apocrifo biblico

Un frammento del Vangelo di Maria, un vangelo gnostico scritto in lingua copta verso la metà del II secolo a partire da un proto-testo greco.

Il termine apocrifo, dal greco ἀπόκρυφος, derivato di ἀποκρύπτω «nascondere», indica «ciò che è tenuto nascosto», «ciò che è tenuto lontano (dall’uso)».

In origine, il termine “apocrifo” è stato coniato dalle comunità che si servivano di tali testi, poiché erano libri che, in opposizione a quelli comuni, pubblici e manifesti, venivano esclusi dalla pubblica lettura liturgica, in quanto ritenuti portatori di tradizioni errate o contrastanti con quelle condivise e accettate. Nell’uso corrente, la parola è riferita comunemente alla tradizione giudaico-cristiana, all’interno della quale è stata coniata; in essa il termine “apocrifo” assume il significato di testo non incluso nell’elenco dei libri sacri della Bibbia ritenuti ispirati e pertanto non usati a livello dottrinale e liturgico.

Visto che le differenti confessioni religiose hanno adottato diversi canoni dei libri della Bibbia, la qualifica di apocrifo varia a seconda della confessione di riferimento.

In ambito protestante, “apocrifi” indica anche i libri presenti nel canone dell'Antico Testamento cristiano ma non in quello ebraico, che nella tradizione cattolica sono indicati come deuterocanonici[1].

Al di fuori dell’ambito religioso, il termine “apocrifo” assume il significato di documento “non autentico”, “non genuino”[2], che non è dell’autore o dell'epoca che gli sono attribuiti.[3]

  1. ^ Apocrifi, libri, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  2. ^ apòcrifo, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  3. ^ apocrifo, in Treccani.it – Sinonimi e contrari, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

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