Economia dell'Impero romano

Le vie del commercio romano attorno alla fine del II secolo.

Nei primi due secoli dell'Impero romano lo sviluppo dell'economia si era basato essenzialmente sulle conquiste militari, che avevano procurato terre da distribuire ai legionari oppure ai ricchi senatori, merci da commerciare e inoltre schiavi da sfruttare in lavori a costo zero.[1] Per questo motivo l'economia appariva prospera ("secolo d'oro"). In realtà restava in una condizione di stagnazione, che divenne decadenza (declino della produzione agricola e contrazione dei grandi flussi commerciali) con la conclusione della fase delle grandi guerre di conquista (116 d.C., conquista romana di Ctesifonte, capitale dell'impero partico).

L'Impero romano, infatti, da un lato si dimostrò incapace di realizzare uno sviluppo economico endogeno (non dipendente dalle conquiste) e dall'altro di ovviare all'aumento dei costi della spesa pubblica (la vera radice della crisi fu l'incremento del costo dell'esercito e della burocrazia) con un sistema fiscale più efficiente che oppressivo. La grave crisi che ne conseguì ne provocò gradualmente la decadenza, fino ad arrivare nel V secolo d.C. alla caduta della parte occidentale ad opera di popolazioni germaniche[2].

  1. ^ «Sistema agrario-mercantile a base schiavistica», con questa formula A. Schiavone definisce il sistema economico-sociale della prima età imperiale di Roma antica (Momigliano e Schiavone, Storia di Roma, Einaudi, 1988).
  2. ^ Secondo A. Fusari il sistema economico dell'età imperiale era destinato alla stagnazione in quanto i due elementi che lo componevano, l'agricoltura ed il commercio, e la sua base energetica principale, gli schiavi, non erano integrati in un mercato unico come nell'economia capitalistica, e la sua alimentazione non derivava se non in minima parte dal surplus reinvestito nel mercato (accumulazione endogena promossa da fattori agenti all'interno del sistema), bensì dall'afflusso di risorse esterne (accumulazione esogena), frutto della rapina, delle guerre e dello sfruttamento delle province. Inoltre l'ordine equestre, che avrebbe potuto contrapporsi all'aristocrazia terriera e guerriera come classe sociale che basasse il proprio potere, la propria ricchezza e la propria identità di classe proprio sullo sviluppo di un sistema imprenditoriale mercantilistico ed industriale, non aspirò mai a sostituirsi all'aristocrazia nell'acquisizione del potere (come avrebbe fatto un'autentica classe borghese), bensì a farne parte, reinvestendo il "surplus commerciale" nell'acquisizione di una rendita fondiaria (A. Fusari, L'avventura umana, Seam, 2000).

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