Esegesi ebraica

Serie di rotoli che compongono l'intero Tanakh.

In filologia l'esegesi (in greco: ἐξήγησις [ek'sɛgɛsis]) è l'interpretazione critica di testi finalizzata alla comprensione del significato. Nell'ebraismo forme tradizionali di esegesi ebraica appaiono in tutta la letteratura rabbinica, che include la Mishnah, i due Talmud e la letteratura midrashica.

Gli esegeti ebraici hanno il titolo di meforshim (commentatori).

Un testo sacro non può far da guida di per sé stesso. Deve esser letto e tutto il leggere è interpretazione.[1] La Torah gode di uno status privilegiato come "Parola del Signore" rivelata a Mosè sul Monte Sinai. Una legge si considera biblica solo se deriva da un verso dei cinque libri della Tora (il Pentateuco). Il festival di Purim, poiché si basa unicamente sul Libro di Ester, viene classificato come un'istituzione rabbinica, non biblica.[1][2]

Tre presupposti governano l'interpretazione del testo biblico:

  1. Il testo è privo di errori e di incongruenze. Dio non commette errori! Contraddizioni apparenti possono esser risolte da una interpretazione corretta, sebbene non sempre si sappia quale sia.
  2. Il testo è privo di ridondanze. Alcune leggi vengono ripetute – per esempio, il Deuteronomio rivisita temi già esaminati in libri precedenti – ma la formulazione precisa rivela sempre un qualche nuovo aspetto.
  3. Il testo è integrale, contenendo tutto ciò che uno deve sapere (non necessariamente "tutto il sapere", sebbene ci siano stati rabbini che hanno affermato anche questo).[3]

Questi tre presupposti si applicano solo alla Torah. Il resto della Bibbia ebraica – Profeti e Agiografi – si reputa libero da errori ma non da ridondanze, non può creare halakhah ma solo chiarirla.[1]

Il Bavli non tratta il testo della Mishnah o altre opere tannaitiche come "stabili e fisse" al pari della Bibbia ma come deposito di leggi che possono essere corrette se ce n'è bisogno; propone emendamenti per chiarire, per evitare inconsistenze o per stabilire la versione corretta della legge.[4] Gli Amoraim a volte dicevano di un testo della Mishnah, m'shabeshta hi (è sbagliato).[5] Amoraim successivi generalmente assumono che i Tannaim non abbiano preservato dichiarazioni superflue, sebbene siano disposti ad ammettere che in qualche occasione "Rabbi incluse una Mishna superflua".[6] David Weiss Halivni nota che termini tecnici comuni, come hakhi qa‘amar ("questo è ciò che intende dire") o eima ("Potrei dire"), "oscillano tra emendamento e spiegazione" e descrive un procedimento per "estrarne l'interpretazione", che gli Amoraim usavano per limitare l'applicazione di una dichiarazione mishnaica ad un certo contesto o caso particolare.[7]

  1. ^ a b c Per questo e quanto segue si veda Norman Solomon, The Talmud, Penguin Books (2009), "Introduction", pp.xl-xliii.
  2. ^ È reputata mid‘rabbanan (istituita dai rabbini) e non mid‘Oraita (istituita dalla Torah scritta).
  3. ^ Per esempio Elijah di Vilna (1720-1799): "Tutto ciò che fu, è e sarà nel tempo è incluso nella Torah... E non solo i principi generali ma anche i dettagli di ogni specie e di ogni individuo umano, qualunque cosa gli accada dal giorno della nascita fino alla sua fine, e tutte le sue trasmigrazioni, tutto in ogni particolare." (Comm. Sifra di-Tsni‘uta, Cap. 5.
  4. ^ Cfr. per es. Shabbat 66a, dove si propone di cambiare "lo zoppo può uscire con i suoi supporti ma Rabbi Jose lo proibisce" con "lo zoppo non può uscire con i suoi supporti, ma Rabbi Jose lo permette". Citato da N. Solomon, The talmud, ibidem.
  5. ^ Per es. Shabbat 121a; Pesaḥim 100a; Gittin 73a; Qiddushim 47b; Ḥullin 141b.
  6. ^ Yevamot 50a.
  7. ^ D.W. Halivni, Peshat & Derash:Plain and Applied Meaning in Rabbinic Exegesis, Oxford University Press (1991), pp.36, 37-39.

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