Fusione di comuni italiani

La fusione di comuni nell'ordinamento statale e nel diritto amministrativo italiano è l'unione fisico-territoriale fra due o più comuni contigui. La fusione tra questi enti locali, introdotta con la Legge sulle Autonomie locali n. 142 del 1990[1], è disciplinata dal Testo Unico degli Enti Locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267; in particolare, la materia è trattata nell'articolo 15 di tale testo unico, che tra l'altro prevede come, a eccezione delle fusioni tra più comuni, non possano esserne istituiti di nuovi con una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti. In base all'articolo 133 della Costituzione della Repubblica Italiana, dette modificazioni devono essere deliberate dalla Regione, sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalle leggi regionali. All'interno del nuovo comune possono facoltativamente essere istituiti più enti locali detti municipi.

La Corte costituzionale ha depositato, il 24 marzo 2015, la sentenza n. 50/2015 con la quale si è pronunciata sui ricorsi presentati da quattro Regioni (Veneto, Campania, Puglia, Lombardia) contro 58 commi (dei 151 originari, ma poi accresciuti in numero dalle successive modifiche legislative) dell'unico articolo della legge n. 56 del 2014 (cosiddetta legge Delrio), discussi in udienza pubblica il 24 febbraio dello stesso anno; in sostanza la Corte afferma che la competenza per le fusioni per incorporazione resta dello Stato, potendo le Regioni legiferare solo sulla fusione "tradizionale" con nascita di un nuovo comune.


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