Stemma di San Marino

Stemma di San Marino
Blasonatura
D’azzurro, a tre torri d’argento aperte, finestrate e murate di nero, merlate alla guelfa, poste sopra altrettanti monti di verde, e cimate ognuna da una piuma in palo d’argento. Scudo a forma di cuore, incorniciato d’oro, accostato da un ramo d’alloro a sinistra e da un ramo di quercia a destra, uniti sotto alla punta dello scudo da un nastro bianco con il motto LIBERTAS d’azzurro. Timbrato da una corona radiata di otto punte, chiusa da tre semicerchi ornati di perle e congiunti da un globo crociato.
Lo stemma anteriore al 2011

Lo stemma di San Marino raffigura il monte Titano con ben evidenti le tre rocche della capitale San Marino: Cesta, Guaita e Montale. Ciascuna è sormontata da una torre d'argento merlata, murata di nero e con in cima una penna di struzzo di colore argento.

Come ornamento esteriore porta due rami divergenti di color verde: d'alloro quello posto a destra, di quercia quello a sinistra. I rami sono legati in basso da un nastro con il motto nazionale «LIBERTAS». Probabilmente si riferisce all'inclusione di coloro che furono perseguitati nella zona della rocca e alla sorprendente conservazione dell'indipendenza della piccola repubblica in mezzo a Stati molto più grandi. Il motto potrebbe aver avuto origine dalle presunte ultime parole del santo fondatore: "Relinquo vos liberos ab utroque homine" (tradotto dal latino: "Vi lascio come liberi da ogni altra persona")[1]. Risalirebbe almeno al XIV secolo.

La bandiera nazionale formata da due bande orizzontali, una bianca e una azzurra, contiene questo stemma.

Il ramo di quercia e quello di alloro che delimitano lo stemma rappresentano invece la stabilità della repubblica e la difesa della libertà.

  1. ^ Questa frase misteriosa sembra riferirsi, più che a due "uomini", ai due poteri oppressivi da cui lo stesso San Marino volle allontanarsi, con la sua decisione di farsi eremita sul Titano: quello dell'Imperatore e quello del Papa. È quanto sostiene William Miller, The Republic of San Marino, in The American Historical Review vol. 6, n. 4 (luglio 1901), pp. 633-649.

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