Battaglia di Camposanto

Battaglia di Camposanto
parte della teatro italiano della guerra di successione austriaca della guerra di successione austriaca
Battaglia di Campo Santo
(incisione della Homann Erben, 1743)
Data8 febbraio 1743
LuogoCamposanto, nel Ducato di Modena
Esitoindeciso (entrambe le parti rivendicano la vittoria)
Modifiche territorialinessuno
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
  • 11.400 fanti
  • 2.600 cavalieri
  • 12 cannoni
  • 9.000 fanti
  • 3.000 cavalieri
  • 25 cannoni
  • Perdite
    1.755 morti
    1.307 feriti
    824 catturati[1]
    397 morti
    1.153 feriti e catturati
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    La battaglia di Camposanto oppure (secondo le fonti storiche) Campo Santo fu combattuta l'8 febbraio 1743 nel corso della campagna italiana della guerra di successione austriaca presso l'omonimo paese che all'epoca faceva parte del Ducato di Modena sul fiume Panaro (che costituiva il confine naturale con lo Stato Pontificio, così come oggi divide il bolognese dal modenese).

    Lo scontro vide coinvolti l'esercito spagnolo-napoletano, agli ordini del generale Jean Thierry du Mont, conte di Gages e forte di 11.400 fanti, 2.600 cavalieri e 12 cannoni, contro l'esercito austro-piemontese, comandato dal feldmaresciallo austriaco Otto Ferdinando von Traun, che poteva contare su 9.000 fanti, 3.000 cavalieri e 25 cannoni. Alla battaglia, nelle truppe dell'esercito del Regno di Sardegna, partecipò con valore anche il barone Wilhelm von Leutrum.

    Gli austriaci riuscirono a fermare gli spagnoli, i quali subirono gravissime perdite (4.000 uomini contro i 2.000 delle forze austro-sabaude). Tuttavia, quando cadde la notte, Traun ordinò il ritiro generale del proprio esercito e Gages, invece di continuare lo scontro, decise anch'egli di rimanere al di là del fiume. Pur rimanendo indecisa, entrambi i governi specularono su questa sanguinosa battaglia, attribuendosene ognuno la vittoria, benché né il conte di Gages né il federmaresciallo von Traun avessero intrapreso alcuna azione decisiva[2].

    1. ^ Ilari p.114
    2. ^ María del Carmen Melendreras Gimeno, p. 18

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