Campagna dell'Africa Orientale Italiana

Campagna dell'Africa Orientale Italiana
parte del teatro dell'Africa e del Medio Oriente della seconda guerra mondiale
Truppe britanniche abbattono i simboli del fascismo a Chisimaio, in Somalia, nel febbraio 1941
Data10 giugno 1940 - 28 novembre 1941
LuogoAfrica Orientale Italiana, Eritrea italiana, Kenya, Somalia britannica, Somalia italiana, Sudan
EsitoVittoria britannica
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
Giugno 1940[1]:
~ 91 000 italiani
~ 200 000 coloniali
Gennaio 1941[2]:
~ 320.000 uomini complessivi
Giugno 1940:
~ 25/30 000 uomini[3]
Novembre 1941:
~ 115 000 uomini complessivi con i guerriglieri etiopi[4]
Perdite
Truppe italiane:
~ 5 200 morti
~ 7 000 feriti
Truppe coloniali:
Almeno 12 000 morti
Almeno 18 000 feriti
~ 100 000 prigionieri (italiani e coloniali)[5]
Truppe britanniche:
~ 1 154 morti
~ 74 550 feriti/malati
Truppe coloniali belghe:
462 morti[6]
Nel computo delle perdite per le truppe coloniali italiane, pesa l'irreperibilità dei dati riguardanti gli scacchieri Nord, Est e Giuba, vedi paragrafo dedicato.
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La campagna dell'Africa Orientale Italiana fu l'insieme delle operazioni militari che videro confrontarsi le forze armate italiane e quelle britanniche nell'area del Corno d'Africa, durante la seconda guerra mondiale. Con l'entrata in guerra del Regno d'Italia, il 10 giugno del 1940, e l'inizio delle ostilità con Francia e Gran Bretagna, la colonia dell'Africa Orientale Italiana (A.O.I.) si trovò in una posizione periferica rispetto al teatro europeo e circondata dalle colonie britanniche di Sudan, Somaliland e Kenya. Le numerose ma deboli forze coloniali italiane sotto il comando del viceré d'Etiopia Amedeo di Savoia dovettero così confrontarsi con le mobili ed equipaggiate truppe dell'Impero britannico del generale Archibald Wavell, coadiuvate dalla resistenza etiope degli arbegnuoc (lett. "patrioti"), attivi in molte regioni dell'Etiopia fin dall'inizio dell'occupazione italiana nel 1936[7].

I britannici, che nell'estate 1940 avevano esigue forze nell'area, consideravano la colonia italiana una spina nel fianco che avrebbe potuto creare problemi per le rotte di rifornimento nel Mar Rosso e da cui sarebbe potuto partire un attacco che attraverso il Sudan avrebbe minacciato l'Egitto e il canale di Suez, su cui gravava contemporaneamente la minaccia delle forze italo-tedesche in Libia. Così, dopo un'iniziale fase difensiva, Londra rinforzò le proprie forze nel Corno d'Africa con l'afflusso di truppe indiane e delle altre colonie africane, tutte modernamente armate e completamente motorizzate. Potenziate, le forze britanniche passarono all'offensiva nel febbraio del 1941, sferrando un doppio attacco alle colonie italiane di Eritrea e Somalia, dove con relativa facilità conquistarono entrambi i territori per poi convergere verso le zone centrali dell'Etiopia. Dopo aver preso la Somalia, le forze britanniche del fronte sud entrarono ad Addis Abeba il 6 aprile 1941 e successivamente si concentrarono assieme a quelle del fronte nord nell'eliminare gli ultimi centri di resistenza in cui le forze italiane superstiti si erano rifugiate. Nelle settimane successive vennero quindi espugnati gli ultimi presidi italiani sull'Amba Alagi, nel Galla e Sidama e a Gondar; il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l'entrata di Pietro Badoglio nella capitale etiope, il negus Hailé Selassié tornò ad Addis Abeba, ristabilendo simbolicamente il suo trono di imperatore d'Etiopia e decretando la fine dell'Africa Orientale Italiana[8].

  1. ^ Rochat, p. 298.
  2. ^ Santangelo, p. 213.
  3. ^ Del Boca, p. 351.
  4. ^ (EN) David Brock Katz, South Africans Versus Rommel: The Untold Story of the Desert War in World War II, Lanham, MD, Stackpole Books (Globe Pequot), 2017, p. 34, ISBN 978-0-8117-1781-6.
  5. ^ Bocca, p. 318.
  6. ^ (EN) G. Weller, The Belgian Campaign in Ethiopia: A Trek of 2,500 Miles Through Jungle Swamps and Desert Wastes, New York, Belgian Information Center, 1942, OCLC 1452395. URL consultato il 6 aprile 2022 (archiviato il 4 maggio 2019).
  7. ^ Del Boca, pp. 106-126 e 313-316.
  8. ^ Del Boca, pp. 333-340 e 463-478.

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