Italiano popolare

L’italiano popolare rappresenta quella varietà dell'italiano parlato o scritto dagli incolti (o analfabeti) e dai semicolti (persone, queste ultime, che, pur avendo ricevuto un'istruzione di base, non hanno una piena competenza dell'italiano scritto, poiché di rado si trovano a produrre testi, soprattutto scritti, "e rimangono pertanto sempre legati alla sfera dell'oralità"[1]). L'italiano popolare si colloca nelle posizioni più basse dell'asse diastratico; in direzione del parlato per quanto riguarda l'asse diamesico (ma ne troviamo delle tracce anche nello scritto) e rappresenta il registro più alto per chi di solito parla il dialetto. L'etichetta di italiano popolare fu introdotta nel 1970 da Tullio De Mauro e Manlio Cortelazzo. Il primo lo definiva «il modo d'esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua nazionale», il secondo come «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto». Alcuni studiosi, partendo dalla concezione di De Mauro in cui si mette in dubbio l'effettiva presenza di un italiano standard, hanno valutato positivamente l'italiano popolare, considerandolo la ricchezza di quelle classi sociali aventi una competenza linguistica minima, ma pura e autentica. Altri studiosi, partendo dalla concezione di Cortelazzo e riconoscendo ampio vigore all'italiano standard, hanno evidenziato l'inferiorità dell'italiano popolare, sostenendo la necessità di estirparlo.

  1. ^ Paolo D'Achille, L'italiano dei semicolti, p. 41. In Luca Serianni, Pietro Trifone, Storia della lingua italiana, Einaudi, vol. II, 1994, pp. 41-79

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